Il futuro della carne? È un fake

di Flavia Rendina 24/05/19
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hamburger
Il burger vegetale ha conquistato l’America, facendo scintille nel suo esordio a Wall Street. In Italia ancora non è approdato nella GDO ma ci sono tutti i presupposti per cui il “surrogato” possa rivelarsi un successo anche da noi.

Ricordate l’indovinello “C'è una cosa che odora di rosa ma rosa non è, indovina cos'è?”. Bene, oggi abbiamo un hamburger che sembra carne ma carne non è. Cos’è? Semplice, un fake burger, ovvero un burger vegetale estremamente verosimile nel gusto, nella consistenza e nell'aspetto a quello di carne, ma prodotto con ingredienti di origine esclusivamente vegetale, da non confondersi con i vari hamburger vegetariani già presenti sul mercato, analoghi solo nella forma.

Inventato da un’azienda californiana di El Segundo, la start-up vegana Beyond Meat fondata nel 2009 da Ethan Brown e che oggi fa 500 milioni di fatturato collaborando con i maggiori gruppi della GDO, il burger fa parte delle proposte di fake meat create in risposta alla richiesta globale di sostenibilità e di riduzione del consumo di carne animale. «Visto che abbiamo la tecnologia per andare nello spazio, perché non provare a fare della carne direttamente dalle piante eliminando la mucca come “passaggio intermedio”?» ci racconta Lorenzo Ravagli, (in foto con la cuoca Sonia Peronaci, in occasione di una degustazione del prodotto) referente acquisti della Welldone, la catena di hamburger gourmet bolognese che lo scorso settembre ha lanciato la polpetta vegana in Italia, inserendola come ingrediente alternativo in tutte le ricette dei panini al costo maggiorato simbolico di €1. L’insegna, che attualmente ha sedi solo in Emilia Romagna, detiene per altro anche l'esclusiva della distribuzione per Ho.Re.Ca., visto che il prodotto in Europa ancora non è entrato nella grande distribuzione.

A questa quasi perfetta riproduzione di un burger di manzo si è giunti attraverso complessi studi e lavorazioni, ovviamente segreti, e i seguenti ingredienti dichiarati in etichetta: proteina del pisello, per dare consistenza e texture; grassi vegetali e in particolare l’olio di cocco, la cui componente satura “imita” il grasso della carne bovina; amido di patata per dare morbidezza; estratto di barbabietola per il colore rosso sangue (che vira al marrone in cottura grazie alla reazione di Maillard di caramellizzazione degli zuccheri, che qui si attua grazie all’alta percentuale di carboidrati) e acido ascorbico per la conservazione. Non ci sono altri conservanti, in linea con la normativa europea, e il prodotto viene venduto frozen, congelato, nella forma di classico hamburger.

Dal punto di vista nutrizionale, non contiene colesterolo né ogm, glutine e soia, ma ha un buon 17% di grassi, di cui 8 saturi, e un elevato apporto nutrizionale (20% di proteine per 110 g), motivo per cui deve essere considerato a tutti gli effetti un’alternativa alla carne.

Insomma, un prodotto sano e sostenibile, ma che deriva in modo insostituibile – e questo forse scontenterà i fanatici del naturale – da lavorazioni altamente tecnologiche. Il costo di produzione lo dimostra: «siamo un 40-50% sopra un macinato di carne di medio-alta qualità» conferma Lorenzo Ravagli.

Il burger è dedicato ai flexitarian, termine che indica tutti quei consumatori desiderosi di ridurre il consumo di carne e di pesce senza stravolgere le proprie abitudini alimentari, ma mira ad “aggredire” quel 30% di carnivori convinti, invitandoli a provare qualcosa di alternativo ma altrettanto soddisfacente. Infatti sugli scaffali esteri al momento viene posizionato accanto alla carne e non nel reparto cibi vegetariani.

Volendone dare una lettura semiotica, come suggerito dalla professoressa universitaria Michela Deni, si tratta di un “cibo incrementale” ovvero di un’innovazione che non mira a trasformare lo stile di vita di una società come farebbe un “cibo radicale” (ad esempio, gli insetti nella cultura occidentale), ma a creare attraverso un prodotto “feticcio” una nuova routine che mantenga inalterate le normali abitudini di consumo.

Un surrogato che sembra funzionare visto che, è notizia di questi giorni, in America il colosso dei fast food Burger King introdurrà tra i suoi menù il burger di fake meat di Impossible food, marchio “rivale” di Beyond Meat. Ma la start-up californiana, già sostenuta sin dagli albori da Bill Gates e Leonardo Di Caprio, non teme concorrenza e a inizio maggio si è quotata alla borsa di New York, chiudendo con un +163% solo nel primo giorno di contrattazione e sfiorando un valore di quasi 3,4 miliardi (all’Ipo la società era stata valutata 1 miliardo di dollari). Un trend positivo che appare costante e anche piuttosto stabile nell’esame di breve periodo, quindi adatto anche agli investitori più cauti, come analizzato dall’Ufficio Studi di Teleborsa. Insomma, il “carnivoro” pubblico americano sembra essere stato convinto, vedremo quale sarà la prossima risposta dell’Italia.

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