Stereotipi condizionanti

di Riccardo Viscardi 02/01/20
2038 |
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Stereotipi condizionanti
La ricerca sul vino mostra strade nuove ai produttori e cambia, in meglio, il profilo organolettico dei vini, ma non tutti sono disposti ad ammetterlo.

Negli ultimi 30 anni il vino italiano ha cambiato pelle sotto la spinta della ricerca, dell’innovazione, del volere dei mercati o per ottenere maggiore consenso. Una denominazione che ben si è mossa in questi cambiamenti è stata quella del Brunello di Montalcino; da denominazione piccola e ghettizzata negli appassionati del sangiovese, ha scalato i vertici nazionali e internazionali diventando il punto di riferimento dell’enologia italiana con prezzi elevatissimi delle uve, dello sfuso, un grande incremento dei prezzi dei terreni e un’attenzione mediatica internazionale molto rilevante. 

Questo successo non è frutto del caso ma di continui aggiustamenti del tiro da parte dei produttori. Negli anni a cavallo del secolo passato cambiarono tre volte il disciplinare di produzione senza alterarne il concetto di fondo: sangiovese in purezza e uscita al 5° anno dopo la vendemmia. Adattarono le rese alle esigenze della denominazione e soprattutto alleggerirono il tempo minimo di invecchiamento in legno. Quest’ultimo fattore contribuì non poco al miglioramento di alcuni aspetti qualitativi; inoltre permise, ai produttori che avessero voluto farlo, l’uso di botti di taglio minore creando una pluralità di interpretazioni del territorio altrimenti impossibili.

Perché fu fatto ciò? I produttori avevano notato che in alcune annate, anzi in molte il vino non “teneva” l’invecchiamento nelle botti secondo i dettami del disciplinare, che prevedeva ben 4 anni di maturazione in legno (poi portato a 3 e infine a 2, senza però modificare il numero complessivo degli anni di affinamento). Durante questo periodo di maturazione il vino si scoloriva eccessivamente, perdeva consistenza, e i profumi tendevano ad omologarsi su note evolutive talvolta eccessive: i classici sentori di cuoio scuro, glutammato, tabacco bagnato. Spesso si chiudeva un occhio, in quanto li si credeva un aspetto ineluttabile dell’invecchiamento e della tipologia di vino, ora non è più così. Il legislatore per ovviare a questi “inconvenienti” permetteva e tuttora permette un ringiovanimento di annata durante l’invecchiamento che arriva quasi al 16% come totale nel corso degli anni. Chiaro che non tutti ne usufruivano ma era ed è consentito. 

Con queste premesse si creò una vulgata piuttosto comune e comunque positiva sul Brunello, che grazie alle bottiglie di Biondi Santi, Barbi Colombini, Lisini, Poggio alle Mura e a quelle di altri, a partire dagli anni ‘60, faceva vedere le grandi capacità di invecchiamento donate al sangiovese da quel territorio. Anche i nuovi produttori che iniziarono a cavallo degli anni ‘70-80 dettero un grande impulso alla denominazione con idee moderne e innovazioni che riguardavano l’aspetto gustativo e quello visivo del Brunello. Colori leggermente più compatti, ma soprattutto una parte tannica molto più elegante e un olfatto spesso nitido e leggermente più fruttato almeno nell’anno dell’uscita. Questi erano i vini di Soldera, Cerbaiona, Cerbaiola, Baricci, Poggio all’Oro di Banfi e Poggio al Vento di Col d’Orcia, La Casa di Caparzo, Altesino, Chiesa di Santa Restituta e qualche riserva del Poggione. Questi vini non cambiavano l’idea comune del Brunello, che era comunque un vino invecchiato con olfatti evolutivi. 

Parlando con alcuni enotecari in giro per l’Italia c’era proprio la seguente classificazione delle grandi Docg toscane: vino d’annata il Chianti Classico, leggermente invecchiato il Nobile di Montepulciano ed il Brunello di Montalcino in fondo come vino fortemente invecchiato; se andiamo a vedere era anche una scala di prezzo giustificata dall’invecchiamento. Questo a grandi linee dovrebbe essere il passato, quello che mi lascia perplesso è che molti consumatori e alcuni enotecari credano che in 30 anni non sia cambiato nulla, anche alcuni opinionisti italiani ed esteri sono rimasti lì a creare un culto delle ceneri. 

Nel frattempo, in questa zona sono successe tante cose, molte positive e alcune meno, ma si sa che in una ricerca creativa non tutte le idee mostrano la stessa validità, soprattutto alla prova del tempo. Negli anni ‘90 si cercò di dare al Brunello una consistenza eccessiva ottenuta con estrazioni spinte, secondo una scuola di pensiero strettamente bordolese che vedeva nei délestage e nella ricerca della maturità fenolica i dogmi per vini molto potenti che ammiccavano al mercato statunitense che da certe muscolarità era molto attratto e premiante. I colori si scurirono anche troppo, le surmaturazioni in vigna erano la prassi e poi il tutto finiva in barrique. 

Non tutti seguirono questa moda, alcuni la seguirono solo in parte, e comunque si imparò molto da queste sperimentazioni. Questi vini ebbero un buon successo oltre oceano ma fecero notare alcuni limiti di tenuta nel tempo. Soprattutto a livello olfattivo, anche se su registri differenti; i profumi di confettura di mora e mirtilli, uniti alle eccessive note affumicate tendevano con l’invecchiamento a diventare, sentori di rabarbaro e tamarindo, con note cotte che talvolta ricordavano l’Amarone piuttosto che il Brunello. Le annate calde evolvevano molto velocemente, mentre nelle annate fresche alcuni vini che seguivano questi dettami fecero faville. In ogni caso i tannini erano ancora meno spigolosi e la trama del vino si infittiva. Anche questa strada quindi aveva dei pro e dei contro, sebbene si creò una situazione di grande conflitto tra uno schieramento ipertradizionalista e uno ipermodernista che ancora si protrae, in maniera sciocca e poco redditizia per tutti. 

La tendenza a ragionare per metodi, per posizioni ideologiche, rende la crescita della zona che è in corso da vari anni poco visibile al grande pubblico, proprio perché chi dovrebbe raccontarla con serenità, si presta invece a una dialettica di contrapposizione e scontro sui metodi di produzione, come se l’aspetto olfattivo di un Brunello debba essere lo stesso di 30 anni fa. Già, perché è su questo aspetto che l’immobilismo è totale mentre sui tannini migliori, più cremosi, su tessiture più strette c’è una visione decisamente consolidata. Per alcuni degustatori, purtroppo connazionali, c’è ancora una filosofia degustativa che è schiava dei retaggi del passato e che continua a giudicare vini con parametri talvolta obsoleti, con delle equazioni, a cui accennavamo in precedenza, superate dalle conoscenze sui vitigni e rese possibile dalle nuove tecnologie. 

Tutto ciò fa nascere vini che ritengo molto più attinenti al territorio in quanto ne esprimono maggiormente le caratteristiche e le differenze. Bisogna per questo rinunciare ai vini più tradizionali? Assolutamente no, ne abbiamo di buonissimi, come segnalato nella nostra Guida essenziale ai vini d’Italia, ma non si può considerare eretico chi propone interpretazioni diverse del territorio, inoltre spesso molto premianti sui mercati esteri. Per i degustatori basterebbe cambiare leggermente la propria visione di questo vino, ma evidentemente allontanarsi dalla propria confort-zone non è semplice. Le nuove “direttive” olfattive e non, sul Brunello, le hanno segnalate alcuni produttori, ai quali molti si stanno accodando grazie anche alle buone risposte avute da una parte della critica e dai mercati. L’idea principale è di mantenere un olfatto complesso ma su note fruttate e floreali, con il minimo contributo di sottobosco per i primi anni della messa in commercio cercando di evitare sentori più terziari come tabacco e cuoio o le erbe medicinali al nord e la macchia mediterranea a sud. I colori sono più brillanti e meno granati, mentre la fase gustativa mantiene una buona ricchezza e un’affascinante cremosità del tannino che sono le caratteristiche di Montalcino. 

Per ottenere questo si passa per delle selezioni sia manuali che ottiche degli acini e non più dei grappoli, cosa che si è sempre fatta a Montalcino, meno per la selezione elettronica; quello che cambiano sono le fermentazioni, sempre più attente sulla parte di chicchi interi, sui profili di temperatura e sui tempi di macerazione che variano molto con il tipo di annata. Per il tipo di invecchiamento si può ricorrere indifferentemente alle botti grandi o piccole che ovviamente incidono sullo stile del vino ma molto meno di prima, in quanto la grande differenza è stata fatta in fermentazione. 

Ecco sul trattamento delle fermentazioni si può fare il distinguo tanto caro ai più, e giornalisticamente pagante, quello di dividere tradizionalisti e modernisti se proprio bisogna per forza creare fazioni, e non sul concetto del legno che usi dal suo volume e qualche altra diavoleria. Almeno ci si confronterebbe su qualcosa di determinante. 

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